Carlo MuzzuVendeva
anche asparagi...e se non erro, poverina, una
volta era stata investita da una macchina nella
stessa zona dove lavorava...impossibile
dimenticarla...
Andrea Fancelluha
venduto di tutto: dalle antunne agli asparagi,
dai finocchietti selvatici all'aglio, ...era
analfabeta ma non si faceva fregare da nessuno,
i conti li sapeva fare ... sempre austera e
severa, ha saputo conservare dignità e ...Emoticon
smile
Mario GrimaldiAndreaAndrea
Fancellu-Andrea,
questa Signora che tutti abbiamo conosciuto era
di una eccezionalità incredibile, e sicuramente
di una sensibilità notevole. Leggi cosa scrive
di Lei mio cugino Prof. Giuseppe Pulina. (Quanto
leggeremo di seguito è stat...Altro...
Andrea Fancellugrazie
a te Mario e grazie a tuo cugino per questo
bellissimo ricordo di una donna umile e
generosa! donne di altri tempi ...Emoticon
frown
Andrea Fancellula
vita di tzia Peppa mi ricorda tanto la poesia
del nostro grande poeta Vincenzo Pisanu, ove
incarna la figura e l'esistenza di tutte le
madri sarde, delle nonne sarde, che nel bisogno
e nella fatica hanno sofferto e penato ottenendo
dalla vita soltanto qualche barlume di gioia, di
felicità.... che ne pensiMarioe
voi amici/e di questo bellissimo gruppo:
Mario GrimaldiSemplicemente
meravigliosaAndreaAndrea
Fancellu-
Andrea, questa Signora che tutti abbiamo
conosciuto era di una eccezionalità incredibile,
e sicuramente di una sensibilità notevole. Leggi
cosa scrive di Lei mio cugino Prof. Giuseppe
Pulina. (Quanto leggeremo di seguito è stato
pubblicato tempo fa dalla sorella Laura )
"La vecchia con il fazzoletto nero avvolto sulla
testa stava rannicchiata sul bordo del
marciapiede all'angolo delle Poste. Vendeva gli
sfizi di stagione, le lumache in estate e in
autunno, anche quelle piccoline che da noi si
chiamano giogga minudda, gli asparagi in
primavera e le verdure selvatiche d'inverno.
Arrivava ogni mattina con il suo cesto e si
metteva a offrire le sue cose, io l'avevo sempre
conosciuta. I passanti si fermavano e le
chiedevano due dozzine di lumaconi o due cespi
di rughitta e lei, con mosse svelte a abili,
avvolgeva la merce in un cartoccio, prendeva i
soldi per i quali normalmente non si accettava
il resto e li metteva nella tasca di stoffa
davanti alla sua gonna lunga. L'ho rivista
stamattina, illuminata da un sole gelido del
solstizio d'inverno, china sul cestino che
rassettava gli ultimi mazzetti di verdure e mi
sono messo ad osservare il suo profilo aquilino,
le rughe ricamate che contornavano il fazzoletto
indossato alla zappadora con i lembi avvolti
dietro la nuca , gli occhi vividi e le mani
piegate dal freddo. Si muoveva ancora con la
grazia e l'agilità delle contadine osservando il
fiume di gente ubriaca dalla corsa agli acquisti
di Natale che le passava accanto senza, quasi,
vederla. Mi sono avvicinato e, sedutole a
fianco, le ho rivolto la parola, in dialetto.
Come è la campagna? Come vuole Dio, queste notti
di sereno hanno gelato tutto. Stamattina sono
riuscita a malapena a raccogliere queste poche
cicorie e doveva vedere, voshtè, era tutto
bianco che scricchiolava sotto le scarpe. Ma io
conosco un posto, proprio fuori dal paese, dove
c'è sempre un po’ di caldo e non ghiaccia e lì
crescono bene le verdure, non si bruciano. Le ho
chiesto cosa pensava della gente di adesso che
non conosceva più neanche il colore della
campagna, che quando è sereno di notte diventa
candida e si copre di una nebbiolina fitta fitta
da mettere l'umido nei capelli. Io ne ho visto
di gente, mi rispose, e tutti mi chiedono se è
cambiato da quando ero giovane io. No, non credo
che sia cambiata solo la gente, è che è cambiato
il mondo. La Pasqua di Natale era diversa,
molto. La aspettavamo anche noi ragazze, e
contavamo i giorni che ci mancavano alla novena
mentre raccoglievamo le olive da terra. Era come
un miracolo che sapevamo che sarebbe accaduto
perché la notte santa era la Nascita e Lui era
povero, tanto che è stato partorito sulla
paglia. Io me la immaginavo, la scena, andavo
nella stalla della nostra casa dove c'era
l'asino e mi sdraiavo sulla paglia per provare
quello che aveva provato Lui, e quasi mi mettevo
a piangere, perché era più povero di noi, ma era
il Re di tutto e non c'era bisogno di cose per
essere ricchi ma di pensieri buoni. La novena
poi era una festa grande. Faceva buio presto e
si ritornava molto prima del tramonto, quei
giorni, che c'era sempre da fare per preparare e
da mettersi in ordine per andare in chiesa.
Passavano le mie amiche a casa a prendermi e
c'era anche l'occasione di vedere qualche
giovane che ci interessava. Ci mettevamo nei
banchi in parrocchia noi dalla nostra parte e
gli uomini dalla loro, ma in modo che quelli da
marito fossero abbastanza vicini per guardarci e
sorriderci. Era come avere il caldo nel cuore,
perché di freddo ne avevamo tanto che non ci
bastava il braciere per togliercelo da dosso. La
funzione era fatta di parole in latino che
ripetevamo senza capirle ma che avevano un suono
bello perché il parroco ci diceva che quello era
il modo di parlare a Dio. Alla fine della
funzione i bambini correvano fuori e buttavano i
petardi in mezzo alla gente che usciva dalla
chiesa per spaventarla e per farsi minacciare,
anche se quelle minacce erano benevole e loro
che di solito prendevano le susse per piccole
mancanze lo sapevano e ridevano e urlavano,
felici. La notte Santa, le dico, era la più
bella, l'unica dell'anno che passavamo a
vegliare fino a mezzanotte per andare alla
messa. Cenavamo più tardi, ma attenti a lasciare
il tempo giusto del digiuno per fare la
comunione, con le salsicce fritte sul pane e il
pezzo di maiale arrosto. No, l'agnello non
c'era, era per i più ricchi, e poi un pezzo,
qualche volta quando c'erano gli anni che le
pecore avevano molti gemelli e i pastori ci
regalavano un agnello per allevarlo, lo
mangiavamo il giorno dopo. Dopo tanti anni ho
guardato il cielo a mezzanotte per vedere la
cometa e mi è sempre sembrato di vedere una
stella più grande proprio vicino all'orizzonte
quasi che indicasse la buona fortuna. La festa
iniziava con le campane che suonavano e con gli
spari dei fucili. Tutti festeggiavano l'arrivo
di Gesù con rumore e ci abbracciavamo come
liberati dalle angosce di tutti i giorni e
andavamo verso la chiesa portando con noi una
bottiglia di olio, o del pane o un pezzo di
formaggio per i più poveri, perché ce n'erano
sempre di più poveri da non avere neanche da
mangiare. La messa era solenne, con la chiesa
tutta illuminata ed il presepe che ci incantava
dove era appena stato messo il bambino. Per noi
ragazze era un mistero grande, perché i bambini
nascono brutti, ma Gesù era bello e sorrideva,
come un Re. E fuori i ragazzi cantavano le
gobbule di li tre Re, e chiedevano in cambio
degli auguri uno scudo o una caramella. Per un
momento la devozione si confondeva con
l'abbondanza e ci dimenticavamo della fatica di
vivere. Caro signore, ero felice a Natale, e
questa mi sembra l'unica differenza con il
Natale di adesso. La donna volse lo sguardo
verso la gente che continuava a sciamare in un
vocio concitato e frettoloso, me la indicò
tirando su il mento e scosse la testa. Mi alzai
e le chiesi di darmi un mazzetto di cicoria. Lei
lo scelse con cura fra i pochi rimasti, trasse
dalla tasca un nastro rosso, lo legò e me lo
porse rifiutando i soldi.
“Bona Pascha di Naddari me signò”, mi disse con
un sorriso dolce".
Andrea Fancellui
complimenti vanno tutti al poeta, nel sentire la
sua poesia non posso che sentire commozione ...
i miei, i nostri vecchi ...Emoticon
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Samuele PinnaInformiamo
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